KKR, Ecco Chi E Cosa C'è Dietro Il Colosso Da 460 Mld $ Che Vuole TIM
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Ci sono parecchi italiani nelle fila del colosso Usa degli investimenti alternativi KKR, al centro in questi giorni del dibattito economico-finanziario, dopo la manifestazione di interesse per acquisire il 100% del gruppo TIM (si veda altro articolo di BeBeez).
In particolare, in KKR da 20 anni, dopo un’esperienza di tre anni nell’investment banking in Goldman Sachs, oggi partner e co-head of European Private Equity di KKR è l’italiano Mattia Caprioli, che da Londra guida quindi non solo le attività italiane di private equity di KKR, ma appunto, insieme al collega Philipp Freise, l’intero business europeo e siede nel relativo comitato europeo di investimento e nel comitato di gestione del portafoglio. Caprioli ha lavorato in maniera trasversale su deal nei settori più vari, dall’industriale ai beni di consumo all’healthcare e ai servizi e ha contribuito a concludere alcuni dei deal europei di più grandi dimensioni, come quelli in Walgreens Boots Alliance e Legrand.
Tecnicamente, però, il deal TIM è un affare della piattaforma KKR Global Infrastructure e infatti il manager che sta tenendo le fila del deal per il gruppo americano è in prima battuta Alberto Signori, managing director, entrato in KKR nel 2018 con responsabilità per i deal nel settore infrastrutture in Europa, Medio Oriente e Africa. Signori proviene da Infracapital, il braccio di investimenti in infrastrutture di M&G, e prima ancora ha passato 10 anni nelle divisioni investment banking di UBS e Dresdner Kleinwort (oggi Commerzbank) occupandosi di m&a, finanza strutturata e infrastrutture.
E’ infatti opera sua il deal su FiberCop concluso lo scorso aprile con TIM e Fastweb, che ha portato il fondo infrastrutturale a comprare da TIM, per 1,8 miliardi di euro, il 37,5% di FiberCop, la nuova società in cui sono confluite la rete secondaria di TIM (dall’armadio in strada alle abitazioni dei clienti) e la rete in fibra sviluppata da FlashFiber, la joint-venture di TIM (80%) e Fastweb (20%). Contestualmente Fastweb, in cambio del 4,5% di FiberCop, aveva conferito il 20% di FlashFiber, che è stata poi incorporata in FiberCop (si veda altro articolo di BeBeez). Un deal che è stato evidentemente prodromico a quello ora proposto sull’intero gruppo TIM, che, al prezzo attualmente offerto di 50,5 centesimi per azione, vale la cifra monstre di oltre 33 miliardi di euro di enterprise value.
Il tutto senza dimenticare che senior advisor di KKR per le attività di investimento a livello globale nei settori tecnologia, media e telecomunicazioni dal settembre 2019 è Diego Piacentini (si veda altro articolo di BeBeez). Piacentini, peraltro, dallo scorso settembre è stato nominato anche advisor di Exor e presidente di Exor Seeds (si veda altro articolo di BeBeez). Il manager vanta oltre 30 anni di esperienza nel settore tecnologico. Ha lavorato per oltre 10 anni in Apple Europa, a Parigi, poi per 16 anni in Amazon a Seattle come senior vice president dell’International Consumer Business, dove ha riportato al fondatore della società Jeff Bezos e seguito il lancio e la crescita dell’e-commerce in Europa, Giappone, Cina e India. Nel 2016 era stato nominato Commissario straordinario del Governo Renzi per l’attuazione dell’Agenda digitale, ruolo che ha tenuto sino al 2018.
Intanto, la piattaforma infrastrutture di KKR a livello globale sta macinando altri investimenti miliardari. Sempre lo scorso aprile e sempre in tema di rete tlc in fibra, contestualmente al deal FiberCop, KKR insieme a un altro investiture infrastrutturale, DTCP, ha annunciato un investimento da 700 milioni di euro in Open Dutch Fiber e un accordo strategico con T-Mobile Netherlands (si veda qui il comunicato stampa). Mentre è di pochi giorni fa l’annuncio dell’acquisizione di CyrusOne, un REIT che investe in data center su scala globale, valutato 15 miliardi di dollari. L’operazione verrà condotta da KKR in tandem con un altro colosso delle infrastrutture, Global Infrastructure Partners (si veda altro articolo di BeBeez). Ma non è tutto, perché in vista c’è già un altro mega-deal sempre nel settore dei datacenter, quello sul gruppo londinese Global Switch Holdings, che a sua volta gestisce tredici datacenter principali hub di connettività in Europa e nell’area Asia-Pacifico e che viene valutato circa 8 miliardi di sterline (11 miliardi di dollari, si veda qui Bloomberg). KKR, infatti, è infatti uno dei soggetti in corsa per il gruppo oggi controllato dal produttore di acciaio cinese Jiangsu Shagang Group e partecipato dal fondo cinese Avic Trust. In gara per conquistare Global Switch ci sono anche le piattaforme di investimento infrastrutturali di Blackstone, DigitalBridge, Digital Realty Trust ed Equinix.
Allo scorso 30 settembre la piattaforma globale infrastrutture di KKR gestiva oltre 40 miliardi di dollari di asset, cioè poco meno del 10% del totale di 460 miliardi di dollari di asset gestiti dall’intero gruppo KKR alla stessa data. Un dato in aumento di oltre 30 miliardi in soli tre mesi, visto che a fine giugno gli asset in gestione erano “solo” 429 miliardi, di cui 234 miliardi investiti in titoli quotati e gli altri 195 miliardi in asset non quotati. Il tutto poi distribuito tra private equity, credito, infrastrutture e real estate.
D’altra parte KKR continua a raccogliere fondi di dimensioni enormi. Per esempio, a maggio ha raccolto circa 18,5 miliardi di dollari in meno di 5 mesi per il suo ultimo fondo di buyout dedicato al Nord America, il KKR North America Fund XIII (si veda altro articolo di BeBeez). Tra le ultime strategie di investimento lanciate da KKR c’è poi quella di private equity a impatto, che ha già inserito un target italiano in portafoglio. Lo scorso anno, infatti, il KKR Global Impact Fund, aveva rilevato il 70% di CMC Machinery, principale produttore di soluzioni di packaging automatizzate in Italia, con il 30% che era rimasto in mano alla famiglia Ponti (si veda altro articolo di BeBeez). Lo scorso ottobre nel capitale della società è entrato anche il Climate Pledge Fund, veicolo di investimento di Amazon che investe in aziende impegnate nello sviluppo di tecnologie sostenibili e nei processi di decarbonizzazione (si veda altro articolo di BeBeez).KKR Global Impact ha chiuso la raccolta lo scorso febbraio a quota 1,3 miliardi di dollari, di cui 130 milioni investiti dal bilancio della stessa KKR.
Già perché a sua volta KKR e i suoi manager sono grandi investitori: del totale di 429 miliardi in gestione a fine giugno, ben 31 miliardi erano quelli che erano stati impegnati in veicoli di KKR dalla stessa casa madre KKR e dal management team attuale o precedente. I manager, da parte loro, partecipano come d’uso in questo settore ai guadagni delle operazioni sulle quali lavorano (carried interest) ed è proprio questa la parte più ricca dei loro compensi. Non a caso i fondatori storici di KKR sono tra gli uomini più ricchi degli Stati Uniti, così come i loro colleghi fondatori delle grandi case di buyout. La differenza rispetto a una volta è che oggi alcuni dei veicoli di investimento e alcune delle società di gestione sono quotate, con i principali asset manager internazionali che ne sono diventati azionisti, ma con i fondatori che ancora a loro volta mantengono quote significative che danno luogo a ricchi dividendi.
KKR&Co Inc è quotata a New York dal 2010 e, dopo dieci anni di quotazioni sotto i 30 dollari, ha visto il titolo compiere un balzo incredibile, passando dal minimo sotto i 23 dollari di inizio 2020 agli attuali 75 dollari pari a una capitalizzazione di circa 64 miliardi, comprese le azioni privilegiate.
Lo scorso ottobre Henry Kravis e George Roberts, i due storici fondatori di KKR, hanno lasciato la guida operativa del colosso del private equity Usa, con Joe Bae e Scott Nuttall che sono stati nominati co-ceo, mentre Kravis e Roberts mantengono il ruolo di co-presidenti esecutivi del consiglio (si veda altro articolo di BeBeez). I due manager avevano fondato KKR nel 1976 insieme a Jerome Kohlberg (KKR è l’acronimo per Kohlberg, Kravis & Roberts), tutti ex manager dell’allora Bear Sterns, una banca d’affari molto nota al tempo. Undici anni dopo, nel 1987, Kohlberg lasciò il gruppo in disaccordo con i suoi soci e fondò la società di private equity Kohlberg&Co. Forbes stima che Roberts, Roberts, che oggi ha 78 anni, abbia accumulato una fortuna di 9,1 miliardi di dollari, seguito da Kravis, 77 anni, con 8,6 miliardi. Ma anche i due nuovi co-ceo sono già a loro volta miliardari in dollari: Nattal avrebbe un patrimonio personale di 1,2 miliardi, seguito a ruota da Bae con 1,1 miliardi.
KKR e soprattutto Kravis e Roberts sono finiti sotto i riflettori dei media internazionali per quella che è da sempre ricordata come la mamma di tutte le opa, tanto che due giornalisti del Wall Street Journal pubblicarono poi un libro che è diventato un classico della letteratura finanziaria, intitolato Barbarians at the Gate (acquista qui il libro su Amazon dalla sezione Bookstore di BeBeez ) e che consisteva nella raccolta della serie di articoli sulla storia del buyout di RJR Nabisco, una conglomerata nordamericana con attività nel settore del tabacco e dei prodotti alimentari, quotata a Wall Street. La storia era iniziata alla fine degli anni Ottanta con l’idea di F. Ross Johnson, allora ceo di RJR Nabisco, di condurre un management buyout finanziato da Shearson Lehman Hutton, una banca d’affari molto nota allora. Da quella banca fu poi scorporata nel 1994 la divisione di investment banking, ribattezzata niente di meno che Lehman Brothers. Ebbene quel manager, Ross Johnson, era stato troppo ottimista. Ad avere la stessa idea su RJR Nabisco, infatti, erano stati anche Henry Kravis e suo cugino George R. Roberts, con la loro KKR che a quell’epoca era già diventata un big del settore.
A colpi di opa e contropa, KKR ebbe la meglio su Ross Johnson e Shearson Lehman Hutton. RJR Nabisco nel 1988 finì così nel portafoglio di KKR per 25,1 miliardi di dollari, grazie a un’opa a ben 109 dollari per azione, rispetto ai 55 dollari a cui quotava il titolo prima che iniziasse la battaglia finanziaria qualche mese prima. Si tratta di una cifra da capogiro non solo per quei tempi, ma anche per gli standard di oggi. Per capirci, il buyout della statunitense First Data nel 2007, sempre ad opera di KKR, era stato da 25,7 miliardi di dollari e quello del gruppo elettrico TXU Energy, sempre nel 2007 a opera di KKR e TPG, è stato da 32,8 miliardi.
In ogni caso, tornando a RJR Nabisco, anche KKR non aveva messo sul piatto i 25,1 miliardi di dollari da sola. Anzi. Si era fatta finanziare dal fondo pensione della Coca-Cola, dal fondo pensione Georgia-Pacific, da United Technologies, dalle fondazioni delle università MIT e Harvard e dal fondo pensione New York State Common Retirement Fund. Il tutto secondo uno schema che i fondatori di KKR, Kholberg compreso, avevano sperimentato personalmente su scala più piccola quando ancora lavoravano per Bear Sterns. E che finì su tutti i giornali dell’epoca (si veda qui il New York Times), quando nel 1964 Orkin Exterminating Company, per gli standard di allora una grande società, quotata a Wall Street e specializzata in servizi di disinfestazione, fu oggetto di un’opa lanciata dalla piccola Rollins Broadcasting. Quest’ultima pagò Orkin 62,4 milioni di dollari, ma con l’advisory di Bear Sterns si fece finanziare per ben 60 milioni, mettendo sul piatto quindi soltanto 2,4 milioni di dollari di capitali propri. In molti identificano l’acquisizione di Orkin come il primo leveraged buyout della storia.
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